Bravi ragazzi e mele marce

Si parlava nel post precedente di good guys, bad guys.
Gli americani sono abituati a dividere il mondo in buoni e cattivi. Un po’ come quando la maestra usciva dalle classe e chiedeva a qualcuno di scrivere alla lavagna i nomi di chi si comportava bene e chi si comportava male in sua assenza. Quella linea bianca sulla lavagna è tracciata ben chiara nella mentalità degli americani. Altrettanto chiaro è dove stanno loro. Stanno di qua,  dalla parte giusta, quella dei good guys.

Qualche studioso è persino giunto a teorizzare qualcosa come l’American exceptionalism, qui potete trovarne una spiegazione dettagliata, ma in sostanza e’ un eufemismo per dire: ”Io so’ Io…e voi non siete un cazzo…
In etica questo complesso si cristallizza nell’espressione “we are American we know right from wrong”, quasi una teologia per dire che solo loro sanno distingure il bene dal male.  C’è un’inclinazione naturale per l’innocenza quando si tratta considerare le conseguenze delle azioni compiute dagli americani. Basta rivedere gli eventi attraverso le magiche parole di democrazia e libertà e tutto si lava via. Bianco che più bianco non si può.
Il resto lo si lascia alla propaganda.

Sono usciti da poco negli Stati Uniti da poco due documentari che affrontano queste pericolose ingenuità e lo fanno passando attraverso Abu Ghraib.

Sono due documentari molto diversi. Il primo ha il taglio del reportage. Partendo dalla scomparsa di un tassista afgano, il regista ricostruisce gli eventi sino a dimostrare che le torture non sono (state?) casi isolati, ma sono (state?) sistematiche. A Bagram in Afghanistan, ad Abu Ghraib in Iraq o a Guantanamo a Cuba queste che chiamano e definiscono legislativamente come “interrogation technique” sono la norma. Ci sono le prove e le responsabilità vanno direttamente dentro la Casa Bianca. L’ex segretario alla difesa Rumsfield and Cheney sono coinvolti in prima persona.
Il secondo ha un taglio più psicologico ed affronta due grandi temi. Nel primo Morris cerca di portarci dentro la testa dei militari che sono stati responsabili delle torture in prima persona. Tecnicamente lo fa attraverso il dispositivo inventato da lui stesso e battezzato Interrotron che sovrappone l’immagine dell’intervistatore all’obiettivo della telecamera. In questo modo l’intervistato finisce per guardare negli occhi direttamente il pubblico. Il giudizio resta volutamente sospeso e lasciato allo spettatore. Resta a noi valutare se i torturatori sono solo mele marce oppure sono vittima del lucifer effect (dai, potete anche comprarvi la maglietta). Nel secondo tema del documentario il regista si spinge ad indagare le relazioni tra la realtà  e le immagini fotografiche o cinematografiche che la descrivono: un tema per inscrivere la nostra civiltà.
Quello che resta fuori dall’immagine è la realtà.
Tutta? Parte di essa? E se è una parte, è una parte essenziale o secondaria? Cosa definisce l’immagine allora se la realtà che descrive resta fuori dal frame?

[su YouTube è disponibile Taxi to The dark Side in toto. Per Standard Operating Procedure vi dovete accontentare di spezzoni]

14 pensieri riguardo “Bravi ragazzi e mele marce

  1. mi sembra che ci sia un po’ troppa carne al fuoco.
    un conto e’ la politica di un paese, un conto e’ la gente comune, che e’
    gente dappertutto e non si puo’ racchiudere in una formuletta come questa dei buoni e cattivi (anche perche’ poi e’ risaputo l’amore degli americani per le risalite dei “cattivi”).
    mi permetto di dissentire perche’ la cosa mi tocca. e’ piu’ o meno come quando si parla male di noi italiani come riflesso delle scelte del politico di turno (soprattutto quello di turno in questo momento).
    come al solito non si puo’ fare di tutta l’erba il famoso fascio.

    scusa l’intrusione, alla prossima

  2. Macche’ intrusione, mi fa solo piacere ricevere un tuo commento.

    La formuletta “good guy bad guy” la sento spesso in america, in politica, in tv e nella vita comune.
    Il che non e’ necessariamente una cosa positiva o negativa, ma secondo me e’ un carattere distintivo del mindset americano.
    Affiancata a questa frase trovo ci sia quasi sempre una specie di innocenza a priori, una naivete’ particolare.
    Per certi versi simile allo stereotipo “italiani brava gente”, che ci ha permesso di lavarci la coscienza quando serviva.
    Con questo non voglio generalizzare o cadere in stereotipi, ma solo cogliere certi caratteri distintivi delle culture nazionali, in particolare quella americana.
    Questa innocenza secondo me fa parte dell’inconscio collettivo americano – per usare un parolone. Conosco parecchi americani, sulla cui buonafede e intelligenza mi ci giocherei la mano alla Muzio Scevola, che sono assolutamente convinti che sono in guerra per aiutare gli iracheni o gli afgani.
    Per me questa e’ una ingenuita’ proprio tipica del loro carattere nazionale.

    Ne vedo anche altre -per esempio e per restare a tema- il nazionalismo.
    A me italiano, quando un collega mi ha chiesto che credenziali aveva la Carfagna per fare il ministro, mostrandomi alcune foto
    (che per altro non conoscevo e mi sono piaciute un casino e le ho subito scaricate), non me la sono presa, non ho votato il nano pelato, lo considero un buffone da avanspettacolo, ho giusto tirato giu’ quelle due o tre bestemmie di commiserazione ed e’ finita li’.
    Non mi sento chiamato in causa in prima persona.
    Se prendi un americano, in generale, ha un atteggiamento diverso. Anche se e’ un liberal doc che ha votato prima per Gore poi per Kerry, davanti ad una genialata del loro Presidente, se la prendono molto piu’ a cuore.
    Quasi ne soffrono, perche’ lo sentono una espressione della loro nazione. Hanno un sentimento di appartenenza -verso l’istituzione presidenziale in particolar modo- molto forte.
    Anche questa caratteristica non e’ necessariamente un bene o un male. Ma secondo me e’ un dato di fatto.

    Altro esempio l’esercito: prendi la considerazione che un italiano comune ha dell’esercito, per me, sono un massa di “pipotti” vestiti di verde.
    Per un americano un soldato e’ una specie di supereroe.
    Nota quante volte senti la parola eroe li’ a Dallas e quante volte e’ associata a soldati, vigili del fuoco e poliziotti.
    Adesso pensa a quante volte la senti in Italia e a chi la associ. Quante volte e’ un soldato o un carabiniere?
    Io, l’unica volta che ho visto la parola eroe associata ad un carabiniere, era su un calendario dell’arma: pagina con Salvo d’Acquisto.

    Con questo non voglio dire che le generalizzazioni siano piu’ o meno valide, ma che esistano dei caratteri culturali distintivi di alcune nazioni, questo si’.
    Da qui a “italiani, pizza, mandolino”, “tedeschi nazisti” o “americani ignoranti” ce ne passa.

    Il problema che e’ al centro dei due film e’ il contrasto tra la convinzione di essere i buoni e quello che e’ successo -e succede- in Iraq e in altre parti del mondo. L’americano e’ abiutato ad attribuire certe scene ai nazisti o qualche dittatore del sud est asiatico, non ai GI. Per questo lo scandalo delle foto di Abu Ghaib e’ stato cosi’ sentito.
    L’obiettivo dei due film credo sia proprio questo capire come un comune bravo ragazzo cresciuto in un paesello del West Texas, si possa trasformare in un torturatore.
    Cosa che si e’ verificata mille volte nella storia in mille posti diversi.

  3. Bel commento Sgrigna (nel senso analisi acutissima), non cambierei nemmeno una virgola. Penso esattamente la stessa cosa ma non sarei stata capace di dirlo cosi’ bene. Ho conosciuto degli americani molto critici con il loro sistema che la pensano cosi’. Apprezzo tanto quelli che hanno la capacità di mettere della distanza tra il loro pensiero e l’ideologia ambiantale.

    ps: ahahahah invece mi hai fatto sorridere tanto con l’aneddoto della vostra ministra! Adoro quando in mezzo a un discorso serio, riesci a mettere un occhiolino per farci ridere!

  4. ma grazie!! che bella risposta mi sono meritata, la leggo solo ora, ma sappi che appena dopo averti lasciato quel commento ti ho linkata, a presto! 😉

  5. Gli americani sono un po’ sempliciotti, al contrario di noi che facciamo sempre un sacco di distinguo, forse troppi alcune volte

I commenti sono chiusi.